Ai più il nome Caltavuturo non rievoca alla memoria nulla di importante, ma occorre precisare che questo centro abitato dell’immediato entroterra siciliano ha svolto nel passato il ruolo di strategico avamposto sul fronte del Vallo di Mazara e del Valdemone. L’origine etimologica del termine “Valli” proviene da un termine arabo il più delle volte identificato nel vocabolo wālī. Il termine però non definisce il territorio, ma il governatore di una provincia assoggettata al potere islamico, detta appunto wilāya.
Il suo nome compariva già su queste mappe a dimostrarne la posizione privilegiata di controllo del bacino dell’Imera. Ne sono testimonianza innumerevoli tracce facilmente reperibili nei segni del suo paesaggio e nei suoni della toponomastica delle carte; non a caso Qal‘at Abī l-Thawr rammenta indubbiamente un passato di insediamento fortificato arabo. Raggiungerlo costringe a muoversi lungo delle direttrici naturali, da sempre corridoi di accesso verso la parte meno conosciuta della Sicilia, il suo vuoto interno.
Esattamente all’altezza della più occidentale delle colonie greche, Himera, una valle capta i flussi della costa per proiettarli sulle alture, servendosi di paesaggi scenici in cui calanchi fuori scala si alternano agli ortaggi coltivati in modo misurato lungo il greto del fiume. Le scene sono orchestrate in modo che le costanti siano o pienamente svelate, come sanno fare i segni del paesaggio, oppure celate da profili, nel caso dei centri abitati che scappano dalle valli per rifugiarsi protetti sulle alture. Di Caltavuturo sembra quasi averne perse le tracce; solo una chiesa avvinghiata con le sua fondamenta sul costone annuncia l’insediamento oltre l’ennesimo tornante, oltrepassato il quale una sagoma seghettata di facciate informa il leitmotiv che ci seguirà incessantemente. Coperture spioventi, strade che salgono e scendono, profili misti, visuali che si mischiano, sembra così riemergere alla memoria la Sicilia di Guttuso, un incrocio di direzioni e dimensioni. Qui non esiste un disegno autarchico, ogni (di)segno è l’espressione di un processo informale mai terminato ma sempre spontaneo.
Le case terrane popolano le strade selciate, i confini sono ben riconoscibili sui terreni, le vie si impennano verso la Rocca o si spalancano in vuoti che ci risucchiano a valle, gli abbeveratoi sparsi qua e là fuori e dentro il centro abitato. La corona di questa scena sono i ruderi del castello, anticipati da bacini di pietra disposti irregolarmente lungo le sue pendici: sono i mànnari; qui i pastori erano soliti condurre il bestiame per le attività di pastorizia. Ora il costone roccioso occlude la nostra vista, alle nostre spalle c’è Caltavuturo nel suo continuo avvicendarsi e difendersi dalle avversità. La larghezza della valle si riduce ora a quella di una scala in pietra che ci induce così a proseguire il viaggio fino al momento della grande rivelazione. L’assetto si capovolge irrimediabilmente.
Ritorna il mare così anche i calanchi, ora sulle pendici del Monte Riparato; ci troviamo adesso su quella parte di profilo orizzontale dove per ovvi motivi era stata adagiata la roccaforte di Abū Thawr. Da qui guadagniamo visuali a metà fra il volo e il punto panoramico, sembra di stare sospesi fra terra e cielo. Le rovine del castello, ormai sventrato e incapace di difendersi, sottolineano l’incedere inesorabile del tempo, ormai la sua funzione esaurita si è smarrita nelle guerre. Adesso il Monte Riparato è abbastanza distante da poter essere stretto nei profili di una fessura del vecchio rudere, l’inversione continua a dispiegarsi quasi in modo impercettibile, tutta la valle entra in questa feritoia. Sembra di essere tornati a difendersi dal mondo, eppure il castello è ormai sfiancato, pietra dopo pietra si lascia rotolare giù arreso. Ad ogni alba ed ogni tramonto qui si può meditare sull’anima del paesaggio, sgombro com’è da farci perdere il senso della sua dimensione oppure saturo delle esigenze primitive (difesa e approvvigionamento) dell’essere umano.
Testo e foto by Diego Pérez
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