Perché occuparsi della cucina siciliana? Cos’avrà poi di così speciale rispetto alle altre cucine regionali? La cucina napoletana o quella emiliana non sono certo da meno; lo stesso si può dire per ciascuno di quei frammenti regionali, fatti di storia e di prodotti unici che compongono il variegato caleidoscopio della grande cucina italiana.
Non sarà neanche il desiderio di tutela delle proprie tradizioni, né basterà il campanilismo degli appassionati ad avvalorare alcuna supremazia. Se un primato di questa cucina esiste, esso va ricercato nel suo stesso territorio, quindi nelle vastissime configurazioni climatiche, orografiche e storiche che si condensano in una sola grande Isola.
Solo in Sicilia si possono trovare la neve in luglio (sulle pendici dell’Etna) e ricche fioriture esotiche in dicembre; e soltanto da un simile territorio potevano erompere ricette tanto dissimili come l’acquosa “minestra di grano macinato” e gli speziati piatti di quello speciale Maghreb penetrato, nei secoli, tra le cittadine trapanesi. Ma anche portate tanto diverse, per concezione e retaggi, come il gattopardesco “timballo del Principe” e la miseranda, seppur ingegnosa, “zuppa col pesce a mare”, preparata coi sassi della costa imbrattati d’alghe. Nessun concetto esprime meglio di questo piatto l’attitudine dei siciliani a creare portate e sapori dal nulla: profumi a sostituir sostanza, l’idea a nutrire anima e corpo.
La passione per la cucina siciliana è una faccenda da antropologi più che da semplici appassionati. Un percorso che, come nel mio caso, può iniziare dalla semplice riscoperta delle ricette di famiglia e, procedendo a ritroso, risalire l’albero delle genealogie fino a ritrovarsi in un altrove di culture da svelare. Questo è il mio impegno su Tradizioni Sicilia, uno spazio di approfondimento in cui confluisce lo sguardo di una redazione attenta nel restituire alla Sicilia la sua reale immagine policroma.
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